domenica 20 dicembre 2009

Finalmente... neve!



ecco la scalinata della nostra scuola finalmente imbiancata di neve!
non è bellissima la neve a venezia?


lunedì 14 dicembre 2009

Alessandro Baricco, Novecento


Quello che per primo vede l'America. Su ogni nave ce n'è uno. E non bisogna pensare che siano, cose che succedono per caso, no... e nemmeno per una questione di diottrie, è il destino, quello. Quella è gente che da sempre c'aveva già quell'istante stampato nella vita. E quando erano bambini, tu potevi guardarli negli occhi, e se guardavi bene, già la vedevi, l'America, già lì pronta a scattare, a scivolare giù per nervi e sangue e che ne so io, fino al cervello e da lì alla lingua, fin dentro quel grido , AMERICA, c'era già, in quegli occhi, di bambino, tutta, l'America.
Lì, ad aspettare. Questo me l'ha insegnato Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento, il più grande pianista che abbia mai suonato sull'Oceano. Negli occhi della gente si vede quello che vedranno, non quello che hanno visto. Così, diceva: quello che vedranno.
lo ne ho viste, di Americhe... Sei anni su quella nave, cinque, sei viaggi ogni anno, dall'Europa all'America e ritorno, sempre a mollo nell'Oceano, quando scendevi a terra non riuscivi neanche a pisciare dritto nel cesso. Lui era fermo, lui, ma tu, tu continuavi a dondolare. Perché da una nave si può anche scendere: ma dall'Oceano... Quando c'ero salito, avevo diciassette anni. E di una sola cosa mi fregava, nella vita: suonare la tromba. Così quando venne fuori quella storia che cercavano gente per il piroscafo, il Virginian, già al porto, io mi misi in coda. lo e la tromba.

diottrie: unità di misura della vista
c’aveva: (colloquiale) aveva
scattare: muoversi di scatto, improvvisamente
a mollo: espressione idiomatica : a bagno, nell’acqua
cesso: (colloquiale) w.c.
dondolare: oscillare, muoversi come un’onda
mi fregava: (colloquiale) mi interessava, mi importava
piroscafo: nave a vapore

venerdì 11 dicembre 2009

Sebastiano Vassalli, L'oro del mondo

Il telegramma da Milano diceva: «Comunicasi at familiari avvenuto decesso Alvaro S. Sentite condoglianze», eccetera. Ci sono andato col treno e c’era lo sciopero dei mezzi pubblici: tram, metropolitana, tassì. Una baraonda, un caos. Strade rigurgitanti di automobili intrappolate nel traffico, che strombettavano, di motorini come sopra, che scoppiettavano, di automobilisti appiedati che anche così sgomi¬tavano per sorpassarsi, di vigili congestionati che cercavano di mettere un po’ d’ordine e di sbrogliare l’orribile matassa. Invano. Sui muri, manifesti affissi a spese del Comune re¬clamizzavano i «poeti organizzati». Filastrocche dicevano : dove vai, il mondo è vuoto ed altre amenità. Quando poi sono arrivato all’Ospedale dove zio Alvaro era morto non si trovava il cadavere, chi diceva di averlo messo da una parte e chi dall’altra; un dottore, incazzatissimo, accusava un altro dottore, gridava che gli rubavano i morti per portarli in non so che reparto e avere non so che sovvenzioni, della Re¬gione e dello Stato. «È un’indecenza!», sbraitava. Alla fine, però, il cadavere è stato ritrovato. Era rimasto in barella su un ascensore fermo tra due piani e questa mi ha detto un infermiere - è una situazione normalissima, qui da noi : la gente in ascensore butta di tutto, pacchetti vuoti di sigaret¬te, assorbenti igienici, scatole di biscotti, ciabatte e tutta quella roba poi va a infilarsi dove non dovrebbe, bloccando la cabina. « Abbiamo messo cartelli su cartelli, ma non servono a niente ». Sono arrivati i tecnici, hanno cominciato a andare su e giù per le scale tra le urla delle partorienti al primo piano e i rantoli degli agonizzanti del terzo. L’ascensore è ripartito di schianto verso l’alto, è ripiombato, si è aperto. La barella è schizzata fuori. L’infermiere ha alzato un lembo del lenzuolo e lo zio Alvaro era lì, con un occhio chiuso e l’altro semichiuso che mi guardava; ammiccava. Sembrava proprio che mi facesse l’occhietto. Pensai che quella era la seconda volta che moriva essendo stato fucilato dai tedeschi il 22 settembre del 1943 e abbandonato per morto sul terreno, semisepolto dai cadaveri dei suoi compagni. Lui ci scherzava, ogni tanto. Diceva: «Sono già morto una volta, posso anche morire un’altra volta». Ora era morto. Ammiccava: «Non muoio più, Sebastiano!»
Due giorni dopo l’abbiamo seppellito nel piccolo cimitero di B., all’ombra del campanile della chiesetta romanica, in fondo al viale dei platani. La «Mercedes» delle pompe funebri veniva avanti piano piano nel sole tiepido d’autunno e dietro eravamo in cinque: il prete, due chierichetti che si tiravano calci negli stinchi perché tanto il prete non poteva vederli, la signora Roberta ed io. La signora Roberta era la donna di zio Alvaro: era la fidanzata diciottenne che lui aveva lasciato al paese quando era partito per la guerra e che poi, quand’era ritornato aveva ritrovato già sposata con un uomo più anziano quasi vecchio; era la vedova quarantenne che lo zio Alvaro ancora avrebbe voluto sposare se i parenti e i figli di lei non si fossero opposti in ogni modo («Quello è un fallito, Roberta!» «Cerca soltanto i nostri soldi», eccetera). Era l’anziana Signora che lo andava a trovare in ospedale, con la veletta sul viso per non farsi riconoscere. (da chi?) Io la vedevo per la prima volta: una donnina minuta, apparentemente fragile agli occhi tristi. Pensavo che era stata coraggiosa a sfidare i pregiudizi d’un intero paese, tornando a B. per il funerale di zio Alvaro; ed ero anche imbarazzato perché non sapevo come comportarmi: dovevo salutarla, andare a stringerle la mano? Invece poi è stata lei che mi si è avvicinata al termine della sepoltura, mi ha preso una mano tra le sue, ha detto: «Così, tu sei Sebastiano!»
«Sì, - le ho risposto. - Sono Sebastiano».

Sebastiano VASSALLI, L'oro del mondo, Einaudi, Torino, 1987, pp. 3-4.


baraonda grande confusione
invano senza successo
decesso morte
incazzatissimo (volgare ma molto usato) molto arrabbiato
sovvenzioni aiuti economici
barella lettino per trasportare ammalati
ciabatte scarpe che si usano a casa
partorienti donne che stanno per avere un bambino verbo: partorire sostantivo m. :il parto
agonizzanti chi sta per morire verbo: agonizzare sostantivo f.: l’agonia
ammiccava faceva cenni di intesa, faceva l’occhiolino /l’occhietto
pompe funebri impresa che si occupa dei funerali
chierichetti ragazzini che aiutano il prete a celebrare le funzioni religiose
fallito uno che non ha fatto niente di buono nella vita
pregiudizi idee preconcette, di solito negative

Sergio Endrigo, Trieste



In tutti i miei pensieri
Di sempre o nati ieri
Insiste
Uno che ha voglia di cantare
Come un valzer che ti fa girare
La testa
Come una musica ostinata
Sentita e mai scordata
Trieste
Mare e cielo senza fondo
Ombelico del mio mondo
Trieste
Una nave impavesata
Di bianco blu e celeste
Trieste
Una rosa in un bicchiere
Due gerani al davanzale
Trieste floreale
Canzoni antiche da osteria
Di vino donne e nostalgia
Trieste mia
Foto di gruppo a Miramare
In divisa di marina
Trieste in cartolina
E i tuoi vecchi in riva al mare
Una sirena per sognare
Trieste
Trieste valzerina
Allegra e boreale
Trieste imperiale
Favorita del sultano
E dell’imperatore
Trieste l’amore
Come una donna tanto amata
Perduta e poi cercata
Trieste ritrovata
Tricolore a primavera
Bandiera di frontiera
Trieste bersagliera
Speranza rifiorita
E subito tradita
Trieste ferita
Romana e repubblicana
Vendi cara la sottana
Se devi essere italiana

Stefano Benni, La chitarra magica

Stefano Benni, La chitarra magica, da “Il bar sotto il mare” Feltrinelli, pp. 153-155.

C’era un giovane musicista di nome Peter che suonava la chitarra agli angoli delle strade. Racimolava così i soldi per proseguire gli studi al Conservatorio: voleva diventare una grande rock star. Ma i soldi non bastavano, perché faceva molto freddo e in strada c’erano pochi passanti.
Un giorno, mentre Peter stava suonando «Crossroads», gli si avvicinò un vecchio con un mandolino.
- Potresti cedermi il tuo posto? È sopra un tombino e ci fa più caldo.
- Certo - disse Peter che era di animo buono.
- Potresti per favore prestarmi la tua sciarpa? Ho tanto freddo.
- Certo - disse Peter che era di animo buono.
- Potresti darmi un po’ di soldi? Oggi non c’è gente, ho raggranel­lato pochi spiccioli e ho fame.
- Certo - disse Peter che eccetera. Aveva solo dieci monete nel cap­pello e le diede tutte al vecchio.
Allora avvenne un miracolo: il vecchio si trasformò in un omone truccato con rimmel e rossetto, una lunga criniera arancione, una palandrana di lamé e zeppe alte dieci centimetri. L’omone disse : - Io sono Lucifumandro, il mago degli effetti speciali. Dato che sei stato buono con me ti regalerò una chitarra fatata. Suona da sola qualsiasi pezzo, basta che tu glielo ordini. Ma ricordati : essa può essere usata solo dai puri di cuore. Guai al malvagio che suonerà ! Succederebbero cose orribili ! Ciò detto si udì nell’aria un tremendo accordo di mi settima e il ma­go sparì. A terra restò una chitarra elettrica a forma di freccia, con la cas­sa di madreperla e le corde d’oro zecchino. Peter la imbracciò e disse: Suonami « Ehi Joe ». La chitarra si mise a eseguire il pezzo come neanche Jimj Hendrix, e Peter non dovette far altro che fingere di suonarla. Si fermò moltissi­ma gente e cominciarono a piovere soldini nel cappello di Peter. Quando Peter smise di suonare, gli si avvicinò un uomo con un cap­potto di caimano. Disse che era un manager discografico e avrebbe fat­to di Peter una rock star. Infatti tre mesi dopo Peter era primo in tutte le classifiche americane italiane francesi e malgasce. La sua chitarra a freccia era diventata un simbolo per milioni di giovani e la sua tecnica era invidiata da tutti i chitarristi. Una notte, dopo uno spettacolo trionfale, Peter credendo di essere solo sul palco, disse alla chitarra di suonargli qualcosa per rilassarsi. La chitarra gli suonò una ninnananna. Ma nascosto tra le quinte del tea­tro c’era il malvagio Black Martin, un chitarrista invidioso del suo suc­cesso. Egli scoprì così che la chitarra era magica. Scivolò alle spalle di Peter e gli infilò giù per il collo uno spinotto a tremila volt, ucciden­dolo. Poi rubò la chitarra e la dipinse di rosso. La sera dopo, gli artisti erano riuniti in concerto per ricordare Peter prema­turamente scomparso. Suonarono Prince, Ponce e Parmentier, Sting, Stingsteen e Stronhaim. Poi salì sul palco il malvagio Black Martin. Sottovoce ordinò alla chitarra: - Suonami « Satisfaction ».
Sapete cosa accadde? La chitarra suonò meglio di tutti i Rolling Stones insieme. Così il malvagio Black Martin diventò una rock star e in breve nessuno ricordò più il buon Peter. Era una chitarra magica con un difetto di fabbricazione.

racimolava: raccoglieva
tombino: disco di metallo sulla strada
raggranellato: ricevuto, raccolto
palandrana: cappotto
ninnananna: conzone per addormentare i bambini

Goffredo Parise, Altri (gli)

Altri (gli)

(da Sillabari, di Goffredo Parise, Torino, Einaudi, 1972, pp. 20-24)

II giorno di ferragosto dell'anno 1938 un bambino di otto anni, di «ottima famiglia», con la testa molto rotonda ma fragile si aggirava nei pressi della capanna sulla spiaggia del Grand Hôtel Des Bains al Lido di Venezia verso le due del pomeriggio. Era solo perché la sua abituale compagna di giochi dormiva insieme alla bambinaia nella stanza candida dell'albergo. I bambini tedeschi che aveva conosciuto pochi giorni prima, di qualche anno più vecchi di lui e già nuotatori esperti (lui non imparava mai) non avevano il permesso di rimanere sulla spiaggia a quell'ora e giocavano a cricket nel prato in mezzo al parco tra gli spruzzi degli annaffiatoi.La madre del bambino, che amava molto il sole, stava distesa metà in ombra e metà alla luce su un lettino coperto da un asciugamano bianco di spugna di lino con grandi cifre bianche simili al disegno di una torre: bronzea e lucente di Ambra Solare, i lunghissimi capelli neri, sciolti e rovesciati dalla nuca in su oltre il bordo del lettino, lambivano la sabbia: di tanto in tanto, forse nel sonno, aveva movimenti lentissimi e regali di atleta o di serpente boa che ai raggi potenti del sole abbagliavano. La «signorina», fräulein Etta, dormiva (ma non si poteva mai esserne certi) su una sdraio nel terrazzino della capanna, completamente vestita, la pelle delle guance, delle braccia e delle gambe uniformemente rosa e di un odore uniforme (sapone di Marsiglia). Il suo volto era come tappato, ai lati, da due chignons di capelli misti, biondi e bianchi, fatti di trecce sottili e indissolubili. Il caldo era molto forte, l'acqua immobile e la spiaggia quasi deserta. Eppure di là dei cespugli e della rete metallica dietro le capanne il bambino vedeva muoversi e occhieggiare una folla di gitanti con cartoni e sporte, alcuni dei quali allungavano il collo oltre la siepe per guardare la sabbia rastrellata a disegni ondulati e, oltre la sabbia, il mare. Il bambino stava nell'ombra a forma di casetta allungata dietro la capanna, fermo, molto distratto non si sa da che cosa, il secchiello in una mano e la paletta nell’altra, si sarebbe detto nell’atto di sostenere la sua testa rotonda e molto ingenua. A un tratto vide un uomo scavalcare la siepe: nel farlo scivolò due volte, si impigliò nei reticolati che strapparono l'abito blu ma pareva avere molta fretta e finalmente cadde, con movimenti incrociati degli arti troppo lunghi, di qua del recinto. Stette un po' cosí ammucchiato tra la sabbia polverosa, guardando a destra e a sinistra, vide il bambino che lo guardava e dopo essersi assicurato che non c'era nessun altro che lui, lo chiamò con un cenno della mano. Pieno di terrore, ma al tempo stesso attratto, il bambino si avvicinò con una piccola corsa bilanciata dal secchiello e dalla paletta.
L'uomo si era alzato, aveva raggiunto lo stretto spazio tra due capanne vuote dell'ultima fila e lo aspettava lí. Era un uomo molto alto e magrissimo, con la pelle bianca, un volto a punta e due grossissime lenti insieme opache e scintillanti attraverso cui non era possibile vedere gli occhi. Il bambino notò che una delle stanghette di metallo era rotta e aggiustata con filo nero da cucire, anche le scarpe erano rotte e i calzini arrotolati sulla caviglia fin quasi alla scarpa. L'uomo cominciò a spogliarsi, in modo cosi rapido e magico, data la sua altezza, che in un attimo fu in mutande, con grande vergogna e imbarazzo del bambino: un paio di mutande larghe di tela nera con uno strappo a forma di sette sul dietro. L'uomo arrotolò scarpe e abiti e porgendo al bambino l'enorme fagotto disse: - Mi fai un piacere? - e tentò di carezzarlo con la fredda estremità di un lunghissimo arto (non sembrava una vera e propria mano). Il bambino paralizzato dal terrore si ritrasse, non rispose e l'uomo ripeté la domanda, poi gli chiese di custodire i suoi vestiti per pochissimo tempo: voleva «lavarsi i piedi» e vedere il mare che non aveva mai visto. Dopo gli avrebbe dato «la mancia». Queste spiegazioni e i grossi occhiali rotti attenuarono il terrore nel bambino ed egli, suo malgrado, fu spinto, fisicamente spinto verso l'uomo da una grandissima pietà. Allungò le braccia, l'uomo nel posare il fagotto si avvicinò guardandolo da vicino come fanno i miopi e vide le lacrime che sgorgavano sulle sue guance. Sorrise con la bocca bagnata e informe che sapeva di vino e tabacco e disse: - Ti hanno messo in castigo? - e scomparve.
Il bambino vide due sottili e chilometriche gambe di legno, la bandiera nera delle mutande strappate in uno sventolio generale, laggiù, in fondo alla spiaggia; e subito fu terrorizzato dalla responsabilità e dal peso degli abiti che non riusciva a reggere tra le braccia e gli caddero nella sabbia: pensò all'uomo e lo odiò, dimenticando totalmente il sentimento di poco prima. Con sforzi enormi riuscí a trascinare il fagotto puzzolente vicino alla capanna. Spiò la madre e fräulein Etta: dormivano entrambe. Con un ultimo sforzo portò il cumulo degli abiti in un cantuccio della capanna, lo ammucchiò nel fondo, ma proprio in quel momento sentí dietro di sé l'ombra e la voce strillante dell'istitutrice: - Was ist denn das? - II bambino farfugliò in italiano, non trovò le parole in tedesco, posò le due mani sulla testa rotonda come per sostenerla e con l'intenzione (non sapeva né riusciva a sapere bene quale) di raccontare tutto in fretta o di chiedere perdono.
Le voci risvegliarono la madre che sollevò con una mano i capelli e chiese cos'era successo. Fräulein Etta spiegò ciò che non poteva spiegare perché non gli era stato spiegato e non seppe andare oltre una serie di sospiri agitati che cominciavano e finivano con «Ein mann... ein mann...» Fu chiamato il fedele e vecchio bagnino che esaminò il fagotto (allontanato dall'interno dalla cabina con brevi tocchi della punta delle scarpe da fräulein Etta) e corse sulla spiaggia con i pugni chiusi a cercare l'uomo. Fu individuato subito, preso per un braccio e portato a loro tra bestemmie, spinte e contorcimenti dei lunghi arti. Parve al piccolo che l'uomo avesse fatto il gesto di sputare contro il bagnino che lo trascinava. La madre disse: - Lo lasci andare, Giovanni.
L'uomo liberato dal bagnino si avvicinò al gruppetto familiare e disse alla madre che aveva intenzione di pagare, che lui non era un ladro e non aveva mai rubato in vita sua. Cavò dal fagotto una specie di portafogli di stoffa nera e avvicinandolo agli occhiali stava per estrarre del denaro, ma la madre lo fermò con un gesto della mano e disse: - No, no -. Poi l'uomo guardò il bambino e con un sorriso che questi intuí debole e falso, voleva carezzarlo ma la fräulein scostò il bambino. Allora l'uomo se ne andò col fagotto e nelle mutandone a passi lunghi e lenti e per simulare una dignità che aveva perduta fin dalla nascita si ravviava i sottili capelli a testa alta.
La madre ordinò al bagnino di curvare l'ombrellone, si girò lentamente ed espose tutto il lungo corpo nel costume nero, al sole. Fräulein Etta cominciò a fare al bambino una paternale a raffiche sugli unbekannten (sconosciuti), a pause sempre più lunghe, fin quasi al tramonto. Poi calò il sole e la famiglia si ritirò nell'appartamento dell'albergo come in una clinica.
Durante la notte il bambino pensò all'uomo ascoltando la pigra acqua della laguna appoggiarsi sulla spiaggia insieme ai raggi lunari. Si domandò molte cose di lui cercando di arguirle dagli occhiali, dalla pelle bianca, dalle scarpe di gigante e dal fagotto. Fu preso ancora da grandissima commozione e due o tre volte pianse. Chi era? Un ladro, un ex carcerato, un povero, un ricco diventato povero (avrebbe potuto accadere anche a lui, da grande, una cosa simile?), un ammalato, e com'era possibile che non avesse mai visto il mare? Aveva o non aveva famiglia? E lui perché aveva pianto? Tutte queste domande rimasero senza risposta nel bambino e più tardi anche nell’uomo adulto, ma fu da quel giorno che egli seppe, proprio perché nessuna risposta ebbero mai le sue demande, dell'esistenza degli «altri».


giorno di ferragosto : il 15 agosto
si aggirava : passeggiava
bambinaia : baby sitter
spruzzi : gocce d’acqua
annaffiatoi : strumenti che servono solitamente a dare acqua alle piante
lambivano : sfioravano
regali : da regina, eleganti
tappato : chiuso ermeticamente
indissolubili : che non si riescono a slegare
occhieggiare : guardare incuriosita
gitanti : turisti
secchiello : « piccolo secchio», è usato dai bambini per trasportare l’acqua in spiaggia
paletta : strumento che i bambini usano per scavare nella sabbia
arti : braccia e gambe
cenno : movimento
opache : contrario di lucido
carezzarlo : accarezzarlo
la mancia : piccola ricompensa
posare : appoggiare
miopi : coloro che non vedono bene da lontano
puzzolente : che ha un cattivo odore
farfugliò : balbettò, disse con difficoltà
bagnino : colui che garantisce la sicurezza in spiaggia
bestemmie : imprecazioni
cavò : tolse
estrarre : tirare fuori
scostò : spostò
ombrellone : «grande ombrello» usato in spiaggia per proteggere dal sole
paternale : ramanzina, discorso che viene fatto per sgridare qualcuno
arguirle : intuirle
carcerato : qualcuno che viene messo in prigione per aver commesso qualcosa di cattivo

Luigi Meneghello, I piccoli maestri

Io entrai nella malga e la Simonetta mi venne dietro; dava sempre l'impressione di venir dietro, come una cucciola. Aveva i capelli un po' arruffati, era senza rossetto, ma bella e fresca. La guerra era finita da qualche settimana. Il malgaro ci diede latte nella ciotola di legno, e lo bevemmo a turno. Poi lui disse:
"Ho sentito sparare."
"Sono venuto a ripigliarmi questo qui," dissi. Portavo il parabello in spalla, e l'avevo provato nel bosco. Funzionava perfettamente.
"Siamo sotto il Colombara con la tenda," dissi. "Sono tre giorni che siamo qui."
Lui domandò se eravamo fratelli e la Simonetta disse di no. Quando andammo fuori lui mi chiamò da parte e mi disse a mezza voce: "Tu hai un fiore". Aveva l'aria di dire che avrebbe preferito averlo lui, ma che almeno cercassi di essserne degno.
Eravamo in una tendina celeste. La notte venivano regolarmente i temporali, e la tenda a ogni lampo s'illuminava di una luce fluorescente. Lasciava filtrare la luce come un velo, e altrettanto l'acqua; il resto dell'acqua arrivava per di sotto. Passavamo le notti seduti sui sacchi fianco a fianco, con le ginocchia rialzate e le braccia attorno alle gambe; ciascuno le sue, s'intende, io le mie e la Simonetta le sue.
Ho sempre odiato i fossetti che bisognerebbe fare attorno alle tende; e poi sulle lastre di roccia sotto il Colombara come si fa? ci vorrebbero gli scalpelli, i punteruoli. Però è calcare, mi ero detto, non occorrono i fossetti, beve l'acqua. Invece risultò che non beveva.
Pioveva forte, a sventagliate, e il tessuto della tenda rimandava all'interno un controspruzzo vaporizzato: anziché parare la pioggia, questa tendina celeste serviva a captarla e a iniettarcela addosso. La Simonetta aveva un gran sonno: ai lampi la vedevo al mio fianco con gli occhi chiusi e le labbra imbronciate, bagnata come un sorcio, e spiritualmente assente.
Eccomi qua con questo fiore, pensavo, in questa sede irrigua. Stranamente non ero arrabbiato: la notte e la pioggia non erano ostili; c'era un groppo che si scioglieva. Sì, pensavo, la Simonetta è un po' insonnolita, il posto è umido, il pan-biscotto (che masticavo di furia) frollo e fangoso: non importa. Si potrebbe vivere anche così, postulata una grotta piena di pan-biscotto. Siamo vivi. Mi sentivo sulla soglia di un mondo chiuso, sul punto di sbucar fuori; uno di quei momenti che vengono ogni tanto, quando finisce una guerra o si baruffa con la famiglia o sono terminati gli esami, e si ha la sensazione che la cosa si gira, la si sente girare.
Mi venne un soprassalto di quella forma di energia che chiamiamo gioia; misi giù i piedi nell'acqua corrente, puntellai la Simonetta col mio sacco e uscii diguazzando, col parabello in mano. Fuori c'erano i cespugli dei mughi, groppi di roccia, alberature di pini. Si udivano sparare i tuoni, con scrosci magnifici; i lampi erano continui. Mi misi a sparare anch'io, e a gridare, ma non si sentiva niente in quel fracasso. Spargevo raffiche in aria: facevo piccoli lampi blu di forma allungata, giallastri agli orli; stentavo a riconoscere gli scoppi, e invece mi pareva di distinguere lo scricchiolio dei rami di pino sventagliati, un rumorino minuto isolato dal resto.

malga: pascolo alpino
cucciola: piccolo
arruffati: disordinato, spettinato
malgaro: persona che lavora nella malga
parabello: un tipo di fucile
Colombara: nome di una montagna veneta
degno: dignitoso, meritevole
fossetti: canalini
scalpelli: coltelli
punteruoli: attrezzi a punti
sventagliate: raffiche
controspruzzo: spruzzata d'acqua
imbronciate: corrucciate
insonnolito: assonnato
frollo: ammorbito
pan biscotto: pane secco
diguazzando: nuotare
scrosci: pioggia forte

Giorgio Scerbanenco, Racconti

Giorgio Scerbanenco, Prova per scegliersi una ragazza.

Lui aveva undici anni, era come un uomo e aveva fatto le cose da uomo, le aveva detto di andare fino in fondo alla via di casa, dove c'erano i giardinetti, e aspettarlo lì; poi l'aveva raggiunta e avevano finto come le altre volte di giocare, ma in realtà lui sorvegliava l'arrivo del tram che fermava proprio davanti ai giardinetti e appena il tram era arrivato, di corsa erano saliti, il capolinea del tram era proprio alla stazione, e una volta saliti sul treno non li avrebbero ripresi più. Lei aveva dieci anni, era forse la più carina della strada dove abitavano, ma lui non si fidava, era uomo e d'istinto non si fidava delle donne, e voleva essere sicuro che non fosse una pappa molle. "Hai paura?", le chiese. Lei lo guardò quieta. "No", disse. Non sapeva di che cosa doveva aver paura, lui era il suo ragazzo e lei non poteva temere niente.
Scesero alla stazione, era il crepuscolo, a casa stavano preparando il pranzo e li attendevano. Egli andò alla biglietteria e finse di prendere i biglietti, aveva due vecchi cartoncini e glieli mostrò: "Siamo a posto, non andremo più a casa, a Genova prenderemo il piroscafo, c'è un marinaio che ci tiene di nascosto nella sua cuccetta", e stette a guardarla. La Silvia, che pure aveva undici anni come lui, l'Ilaria che sembrava così spavalda, la Dumbina che pure diceva le parolacce, quando aveva detto così, si erano messe a piangere, lì, tra la folla della stazione, per tornare tra le braccia della mammina.
Ma quella no. Alzò il viso quieto, inflessibile, pieno di fiducia in lui e disse inflessibile: "Andiamo". Egli le scompigliò i capelli, felice. "Era una prova", disse, "volevo vedere se hai fegato. Non voglio una ragazza pappa molle: torniamo a casa."


avevano finto (fingere): far credere
capolinea: ultima fermata diuna linea di trasporto
istinto: impulso naturale, carattere
pappa molle: persona senza carattere
quieta: tranquilla
egli: lui
finse passato remoto del verbo fingere
mostrò: passato remoto verbo mostrare
Piroscafo: battello
marinaio: uomo che vive sul mare
di nascosto: senza farsi vedere
cuccetta:posto letto
stette: passato remoto verbo stare
spavalda: arrogante, audace
parolacce:brutte parole
alzò:passato remoto verbo alzare
scompigliò: (scompigliare) mettere in disordine
hai fegato hai coraggio

Mario Rigoni Stern, Le stagioni di Giacomo


Mario Rigoni Stern, Le stagioni di Giacomo

Un libro poetico per l’intensità dei ricordi e delle descrizioni della vita semplice e ricca nell’animo, faticosa e dura nel corpo. Un libro di piccole storie quotidiane della comunità dell’Altopiano, dove il calore del fieno, le vigilie di Natale, le estati profumate fanno da contrasto con le macerie di una guerra appena terminata.


Sono passato e non c'era nessuno. Silenzio attorno e dentro le case. Lontano si sentiva abbaiare un cane e nel cielo gracchiare una coppia di corvi. La neve era arrivata bassa, fin sopra il Moor, ma anche se era freddo i camini non fumavano. Tutte le porte erano ben serrate, chiusi gli scuri alle finestre.
Ricordavo chi abitava qui porta per porta perché da ragazzo venivo quassú dal paese per giocare con il mio compagno di banco. Ricordavo dove erano le vacche, dove i cavalli, l'asino. E gli orti ben coltivati, e la fontana da cui sgorgava un'acqua freschissima: prima bianca, poi limpida dopo che l'aria incorporata svaniva dalla superficie del bicchiere.
Nella casa piú vecchia e piccola la porta era socchiusa. Forse era entrato qualcuno a vederla con l'intenzione di comperarla e ristrutturarla come casa per le vacanze; ma poi, sentito quanti erano i proprietari sparsi per la Fran­cia, Americhe e Australia, aveva abbandonato l'idea. O forse a entrare saranno stati quei giovani di passaggio che non si sa da dove vengono e dove vanno. Avranno forzato la porta per passarvi la notte, ripartendo la mattina dopo.
La porta non ha vetri ma tavole d'abete inchiavardate, non ha serratura con chiavi o catenacci ma una maniglia fermata da un paletto e dal filo di ferro a un chiodo infisso tra le pietre del muro. Sono entrato dopo aver bussato e chiesto permesso. Il silenzio e la penombra erano carichi di ricordi che sembravano chiedere la parola.
La piccola finestra che guardava a mattina non mostrava piú il paesaggio perché bardane e ortiche cresciute all'esterno impedivano la vista. Si vedeva solo un pezzo di cielo.
Sul focolare annerito restava un po' di cenere compatta e dura, simile a quella che rimane in fondo ai sepolcri. Il pavimento era cosparso di riviste con tanta pubblicità e donne nude ma, rimuovendole con un piede, sotto affioravano ramoscelli secchi e qualche foglia di faggio. C'erano ancora l'acquaio in pietra, i ganci dove appendere le secchie di rame per l'acqua, le scansie a vista dove venivano riposte stoviglie e posate. Mancavano la stufa da trincea che era stata recuperata da un ricovero austriaco, le quattro sedie, la panca e il tavolo. Il posto del tavolo mi ricordava che lí sotto, per la botola, si scendeva nel vano dove venivano riposte le patate, i cavoli agri, il lardo e i salumi dopo che si erano asciugati. Verso il soffitto di tavole e travi, basso per tenere il calore e nero per il fumo, saliva la scala di legno per le stanze sovrastanti. Erano piccole, scure, con finestre minuscole che dagli spessi muri guardavano a mattina, verso il bosco.
La Grande Guerra non aveva distrutto del tutto questa contrada; non l'aveva rasa al suolo come le altre vicine. Stranamente era rimasta in piedi anche se era stata sotto il tiro di tutte le artiglierie, anche se era stata abbandonata, ripresa e ancora abbandonata da Italiani e Austroungarici. Forse perché qui c'erano degli ospedaletti da campo, come dimostravano i tre cimiteri dove erano stati sepolti quattrocento soldati italiani? Queste vecchie case erano state solo saccheggiate e incendiate: i muri erano sempre quelli da secoli, come anche le grosse travi di larice che il fuoco aveva solo carbonizzato in superficie.

Adesso, da una trentina d'anni, le sette porte della contrada si aprono solamente quando i cittadini salgono dalla pianura per fare vacanza. I discendenti di coloro che le avevano costruite con le pietre scavate dalle montagne e con i tronchi scelti nei nostri boschi, che le avevano riparate nel 1920, che qui avevano iniziato o terminato la loro vita, o che da qui erano partiti per luoghi lontani di lavoro, o per guerre, non ci sono piú. Non si accendono focolari ma si fanno le grigliate all'aperto bruciando salsicce sui barbecue nei fine di settimana. Gli orti sono diventati parcheggi. Anche la fontana non c'è piú: impediva la manovra alle automobili. Tutto è cambiato. È molto lontano quello che era vivo dentro questa casa, rimasta vuota di tutto e piena di silenzio. Qui era nato e vissuto fino ai vent'anni il mio compagno di banco.



compagno di banco: il bambino che siede vicino quando si è a scuola
vacche: mucche
forzato: aperto con la forza
inchiavardate: inchiodate
catenacci: grosse catene
bardane: erbacce
sepolcri: tombe
acquaio: lavandino
secchie: secchi
scansie: ripiani
trincea: fossa scavata che protegge i soldati durante la battaglia
botola: apertura nel pavimento che permette di passare in un locale sotterraneo
contrada: città, sobborgo
saccheggiate: derubate
carbonizzato: bruciato
grigliate: quando si cuoce la carne sulla griglia all'aperto


martedì 8 dicembre 2009

Chi lo traduce dal veneziano all'italiano?




Santa Marta, Ska J

So Venessian, Venessian da Santamarta
la prima a sinistra co ti vardi su 'na carta
so 'nda abitar in calle de la minestra
vedo Marghera co verzo la finestra

Mi stago al vintisinquantaquatro de Santamarta
vintisinquantaquatro de Santamarta
mi stago al vintisinquantaquatro de Santamarta
vintisinquantaquatro de Santamarta

Go le careghe trovae su le scoasse
ve assicuro che non so un tipo di classe
tanto par dir mi so nato povareto
quaranta ani ma dormo soto el teto

'Desso ve conto na storia che xe vera
xe nato in Baia ma desso sta' a Marghera
se la lengua tagia piu' in fondo de un cortelo
eo xe poeta ghe toca far el bidelo

giovedì 3 dicembre 2009

Dente, Vieni a vivere




A nido d’ape o a lisca di pesce facciamo una casetta tutta come ci va.
Mettiamo un letto sul pavimento che al mal di schiena ci pensiamo nell’aldilà.
Prendiamo tutti gli accorgimenti, la testa a nord, le gambe 10 gradi a sud-est.

Vieni a vivere come me, vieni a vivere come me, vieni a vivere come me.
Com’è che non ti muovi? Com’è possibile?

Poi fumiamo le sigarette che a casa nostra non ci vengono mamma e papà.
Mangiamo tutte le scatolette, beviamo birra, andiamo a fare la spesa al discount.

Vieni a vivere come me, vieni a vivere come me, vieni a vivere come me.
Com’è che non ti muovi? Com’è possibile?

Mettiamo un disco sul giradisco, baci in cucina, baci in sala, baci in garage.
Facciamo 120 bambini tutti con dei nomi molto particolari,
così gli canto una canzone,
di quelle belle che li fanno addormentare.

Vieni a vivere come me, vieni a vivere come me, vieni a vivere come me. Vieni a vivere come me, vieni a vivere come me, vieni a vivere come me. Vieni a vivere…

mercoledì 2 dicembre 2009

sequenze di film a venezia




Pane e tulipani
di Silvio Soldini (1999)


Rosalba è una casalinga pescarese, madre di due adolescenti e moglie di Mimmo, titolare di una ditta di idraulica, alquanto grossolano ed infedele. Tornando a casa da una gita con famiglia ed amici in torpedone a Paestum, Rosalba viene dimenticata all'autogrill. Decide di far ritorno a casa utilizzando un passaggio in auto, ma il viaggio fornirà l'occasione per una fuga improvvisata verso Venezia. Nella città lagunare la donna, rimasta presto senza denaro, verrà ospitata da Fernando, un cameriere islandese in un piccolo ristorante che parla però un italiano forbito, colto e letterario, e stringerà poi una tenera amicizia con Grazia, una massaggiatrice olistica, vicina di casa di Fernando. Rosalba trova lavoro presso un piccolo negozio di fiori gestito da Fermo, un anziano anarchico e bisbetico che verrà conquistato dai modi discreti della donna. Mimmo non tollera la lunga assenza di Rosalba e decide di indagare assumendo un investigatore, ma, in vena di risparmi, non si rivolge ad un professionista bensì a Costantino, un giovane volenteroso che si era presentato presso la sua ditta in cerca di un impiego come idraulico. Costantino parte per Venezia dove cerca di porsi sulle tracce di Rosalba fingendosi idraulico ma incontra invece Grazia, di cui s'innamora istantaneamente di un amore ampiamente corrisposto. Nel frattempo Rosalba è attratta sempre più dalla personalità delicata, romantica e misteriosa del discreto cameriere, e tra i due si intensifica un rapporto fatto di piccoli gesti quotidiani e di tenere attenzioni. La vita di Rosalba, lontana da casa, sembra ritrovare una dimensione nuova e la donna riscopre interessi, spazi, rapporti che sembrava aver dimenticato, fin quando irrompe sulla scena l'amante di Mimmo, amica di famiglia, che piomba a Venezia per riportare finalmente a casa Rosalba, in quanto anche lei stanca di occupare quegli spazi e quei ruoli lasciati vacanti dalla moglie del commerciante. Rosalba torna a Pescara e scopre un mondo per nulla modificato dalla sua assenza, desideroso solo di riprendere la squallida routine interrotta dalla sua assenza. Fernando, rimasto solo a Venezia, prende finalmente coscienza del legame che lo unisce a Rosalba e con l'aiuto di Costantino e Grazia intraprende un viaggio che si concluderà con il ritorno definitivo di Rosalba a Venezia, accompagnata questa volta dal figlio minore, l'unico con il quale condivide affinità e sentimenti e che l'assenza materna aveva lasciato in uno stato di silenziosa. sofferenza.

pescarese: della città abruzzese di Pescara
torpedone: bus
autogrill: bar che si trova lungo l'autostrada
fordito: elegante
bisbetico: irascibile, nervoso
In vena di risparmi: con desiderio di risparmiare
irrompe: entra in scena

piomba: arriva all'improvviso
vacanti: liberi
intraprendre: comincia

sequenze di film a venezia



Venezia, la luna e tu è un film del 1958 diretto da Dino Risi.

Bepi, di professione gondoliere, fidanzato con Nina, non rinuncia alle sue avventure con le turiste, che ogni giorno trasporta nella sua gondola. Nina, sempre più gelosa del suo infedele fidanzato, cerca di vendicarsi, tornando a frequentare un suo antico spasimante, Toni, sino a quando Bepi rimane incastrato con due turiste americane che lo vogliono sposare.

Nina si convince a sposare Toni, più fedele e rassicurante; nel frattempo Bepi riesce a liberarsi delle due aspiranti mogli, ma ormai è convinto di aver perso definitivamente la fidanzata, si reca alla chiesa dove sta per celebrarsi il matrimonio, apprendendo con gioia che Nina non ha pronunciato il fatidico sì! Poi la riconciliazione di Nina con Bepi, il matrimonio e la vita familiare, con Nina che non smette di seguire il marito nel tentativo di vietargli ulteriori tradimenti.

spasimante: innamorato

incastrato: coinvolto contro la sua volontà

aspiranti: che vorrebbero diventare

fatidico: sopsirato, che è stato difficile da raggiungere

riconciliazione: pacificazione

martedì 1 dicembre 2009


la bicicletta di massimo sul tram de opicina