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lunedì 9 febbraio 2015

Silvio Testa, E le chiamano navi



Immensi scatoloni galleggianti passano per il Bacino di San Marco: sono bianchi, li chiamano navi, e in effetti lo dovrebbero essere, ma delle splendide navi di un tempo il Rex, il Conte di Savoia, l’Andrea Doria, la Cristoforo Colombo – hanno solo la funzione di portare passeggeri, tanti, il più possibile.
Queste navi non hanno né raffinatezza né buon gusto, sono ispirate ai casinò di Las Vegas, a bordo mantengono quel che promettono: una vacanza da villaggio turistico, scandita da spettacoli di stampo nazionalpopolare scimmiottati dalla tv e dai giochi degli animatori che riempiono le giornate degli ospiti in sandali e pantaloni corti, olezzanti di creme solari. Croceristi che sono parte di quei forse 30 e più milioni di visitatori all’anno che soffocano Venezia trasformandola sempre più velocemente nella cartolina kitch di se stessa, perché la Stazione Marittima, ormai, è una delle principali porte d’entrata di quel turismo “mordi e fuggi” che solo a parole le autorità dicono di voler contrastare.
La prima ragione della bruttezza di questi condomini galleggianti è l’essere fuori scala. Non hanno linea, sono alti oltre 60 m quando a Venezia l’altezza media delle case non supera i 15, e ciò altera ogni prospettiva e costituisce una vera forma di violenza. Turisti in numero infinito e navi smisurate riducono la città a contenitore buono per tutti gli usi, costi quel che costi.
I passeggeri, accalcati sui ponti più elevati per assistere allo spettacolo del passaggio in Bacino di San Marco, finiscono per guardare letteralmente dall’alto in basso la città, perdendo la cognizione che essa sia vera, fragile e bisognosa di rispetto, esattamente come succede ai visitatori dell’Italia in miniatura, quel parco tematico che piace così tanto agli ospiti di Rimini.
Moltissimi veneziani non le vogliono più e si mobilitano, in Facebook c’è anche un gruppo Fuori le maxinavi dal Bacino di San Marco, ma il bando delle grandi navi non può essere decretato solo perché sono brutte o diseducative. Esse, invece, sono dannose e pericolose per la città e per gli uomini, nonostante l’Autorità portuale si affanni a dire il contrario, forte di studi di parte che solo in pochi casi hanno avuto il contraddittorio di indagini indipendenti. Eppure, anche ad accontentarsi degli studi di parte ma a leggerli con attenzione, si capisce che le cose non sono così piane e tranquillizzanti come si vorrebbe far credere, e che il senso comune di quei tanti veneziani che chiedono l’allontanamento delle maxi navi ha ragioni ben fondate. Limitarsi a pretendere che le navi da crociera non passino più in Bacino di San Marco, accontentandosi di mandarle magari a Fusina, in gronda di Laguna, attraverso la bocca di porto di Malamocco, è però una proposta miope: equivale a nascondere la polvere sotto il tappeto, a tenere pulito il salotto buono lasciando al degrado il resto della casa. La Laguna non è altra cosa rispetto a Venezia,   l’una non può vivere senza l’altra e viceversa, e tenervi dentro le grandi navi significa perseverare in un disegno non più sostenibile, precludendosi per sempre la possibilità di ritornare indietro.
Chi vuole mettere mano in Laguna (letteralmente manomettere), ricorda sempre che essa è artificiale, ed è vero, ma per mille anni ogni intervento è valso a mantenerne l’equilibrio, mentre solo da poco meno di duecento anni la si sta scardinando per permettere al suo interno lo sviluppo di una “moderna” portualità. Nel 1901 la profondità media delle bocche di porto era di 7,5 m al Lido, di 9,5 m a Malamocco, di 4 m a Chioggia, mentre ora per permettere il passaggio di navi sempre più grandi le profondità hanno raggiunto i 12 m al Lido, i 17 m a Malamocco, i 9 a Chioggia.  Il mare non è più frenato nell’entrare in Laguna con le maree, ed anzi è velocemente portato fino al suo cuore dal canale Malamocco - Marghera (canale dei Petroli), largo più di 200 m, profondo dai 17 ai 12 m, rettilineo, lungo 14 km, scavato tra il 1961 e il 1969 a servizio del polo petrolchimico. Nel contempo, dal 1924 l’invaso della Laguna è stato ridotto con vastissimi interramenti per creare porto e aree industriali nella gronda e per costruire nel  1960 l’aeroporto di Tessera, col risultato che le maggiori quantità d’acqua che entrano violentemente trovano un bacino più piccolo di un tempo e tracimano. Provocano e aggravano, cioè, l’acqua alta.

scatoloni: grandi scatole
scandita: ritmata
nazionalpopolare: fenomeno della cultura che rappresenta la nazione
scimmiottati: imitare in modo goffo, semplice
turismo mordi e fuggi: tipologia che turista che resta in città poche ore
condomini: grandi edifici per abitare
accalcati: affolati
bando: mettere al bando, vietare
studi di parte: ricerche non obbiettive, che portano vantaggio al committente
gronda: area di contatto tra la laguna e la terraferma
bocca di porto: l'ingresso in laguna per chi arriva dal mare
precludendosi: (precludere) impedire, ostacolare
manomettere: guastare
scardinando: qui nel senso di rompere le regole
polo petrolchimico: area industriale sulla gronda dlla agna




venerdì 12 ottobre 2012

Massimo Carlotto, Nordest



1989 - una città del Nordest.

L'imputato aveva il labbro spaccato, gli occhi pesti, il naso rotto e gonfio con due tamponi emostatici che spuntavano dalle narici e lo costringevano a respirare con la bocca. I due agenti della polizia penitenziaria che lo sorreggevano dovettero aiutarlo a sedersi. Era conciato male.
Il giudice, seccato, guardò l'avvocato per cercare di capire se avrebbe tentato di rinviare l'interrogatorio. L'altro lo rassicurò alzando le spalle. Il suo cliente aveva ben altri problemi a cui pensare.Il giudice, sollevato, dettò al cancelliere le generalità dei presenti e chiese all'imputato se intendeva sottoporsi all'interrogatorio.
Raffaello Beggiato si voltò verso il difensore che lo incoraggiò con un plateale cenno della mano. "Sì" rispose a fatica. La bocca gli faceva male, i pugni degli sbirri gli avevano fatto saltare qualche dente e si era morso la lingua quando gli avevano strizzato i testicoli. Ma nemmeno lui aveva voglia di lamentarsi. Le percosse facevano parte del trattamento riservato agli arrestati in flagranza. L'intensità variava a seconda del reato. E il suo era di quelli che autorizzavano chiunque indossasse una divisa a rompergli il muso. Mentre era in questura, nella stanza dove lo avevano ammanettato a una sedia, erano entrati anche sbirri di altri reparti per il solo gusto di tirargli un cazzotto o sputargli in faccia. Beggiato non se l'era presa più di tanto, in fondo erano le regole del gioco. Aveva solo sperato che lo portassero in carcere alla svelta. Lì nessuno lo avrebbe toccato e avrebbe potuto concentrarsi per trovare una via d'uscita. Magari lo scopino del reparto isolamento era una vecchia conoscenza e gli avrebbe procurato un po' di coca. Ne aveva bisogno per recuperare forza e lucidità.Invece non si era fatto vivo nessuno e l'appuntato dell'infermeria si era rifiutato di somministrargli un antidolorifico. Aveva trascorso quattro ore disteso sulla branda a fissare la lampadina che pendeva dal soffitto soffrendo come un cane e pensando all'interrogatorio. Alla fine si era reso conto che nemmeno una buona sniffata gli avrebbe fatto venire in mente una soluzione decente.
Il giudice riassunse il caso ma l'imputato non lo ascoltò. Sapeva bene come erano andate le cose. Lui e il suo complice avevano studiato il colpo per un paio di settimane. Sembrava un lavoretto facile. Avevano deciso di vestirsi allo stesso modo per dare un tocco di originalità alla rapina; avevano comprato due passamontagna da motociclisti in seta e due completi in velluto di colore nero. Le armi se le erano procurate da un pezzo e le avevano già usate per ripulire un paio di uffici postali e le casse di tre supermercati. Il giorno prescelto avevano atteso che il gioielliere e sua moglie aprissero la porta blindata dopo la pausa pomeridiana. Erano spuntati all'improvviso alle loro spalle e li avevano spinti nel negozio. Il commerciante aveva detto le solite cazzate ma si era fatto disarmare e aveva aperto la vecchia cassaforte Conforti senza tante storie. Era strapiena di oro lavorato e pietre di prima scelta. Gioielli nuovi e di "antiquariato", termine sofisticato usato dai proprietari per coprire l'attività clandestina di banco di pegni del negozio. Merce che non appariva in nessun registro e che avrebbero evitato con cura di menzionare nella lista dei preziosi rapinati.
Lui e il suo complice avevano impiegato una decina di minuti per riempire le borse. Abbastanza perché arrivasse una pattuglia della polizia. La moglie aveva premuto un bottone d'allarme di cui loro non sapevano nulla. Il basista aveva giurato che non c'era nessun allarme nascosto ma in realtà non aveva controllato. Mai fidarsi degli incensurati che iniziano a commettere reati per pagarsi i debiti di gioco. Affrontano la vita come se fosse una partita a dadi, affidandosi alla fortuna e a una manciata di probabilità.
Si erano guardati negli occhi. "Fanculo gli sbirri" aveva detto il suo socio.
"Fanculo tutti" aveva detto lui.
Il bottino era di quelli che ti sistema per la vita e valeva il rischio. Forse, se non fossero stati strafatti di coca si sarebbero arresi limitando i danni, ma in quel momento i pensieri, nel cervello, viaggiavano veloci e sicuri in un'orbita troppo lontana dal buon senso.
Lui aveva afferrato la moglie del gioielliere per il collo e l'aveva spinta fuori dal negozio puntandole la pistola alla testa.Il complice aveva tramortito il proprietario ed era uscito portando con sé le borse con i preziosi. Tutti avevano iniziato a urlare. Loro, gli sbirri, l'ostaggio e i passanti. I due non sapevano cosa fare. Una macchina gialla era spuntata all'improvviso da una traversa e si era ritrovata nel bel mezzo del casino, a dividere buoni e cattivi.
Ne avevano approfittato. Dopo aver gettato a terra l'ostaggio si erano precipitati a spalancare le portiere della macchina. Al volante c'era una donna con il volto deformato dallo stupore, sul sedile posteriore un bambino che chiedeva alla mamma cosa stava succedendo.
Erano bastati pochi secondi per impadronirsi della vettura e fuggire con i nuovi ostaggi. Qualche centinaio di metri dopo la macchina era stata bloccata dalle pattuglie di rinforzo.Lui era sceso con il bambino minacciando di sparargli se non li avessero lasciati passare, e quando si era convinto che gli sbirri non avevano nessuna intenzione di obbedire aveva tirato il grilletto. Il proiettile era entrato tra il collo e la spalla e aveva attraversato il corpo, uscendo da un fianco. Il bambino si era afflosciato sull'asfalto. L'urlo della madre aveva sovrastato per un attimo ogni rumore.
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giovedì 9 febbraio 2012

A piedi da Trieste a Promontore attraversando l’Istria



Partire. Fare l'Istria a piedi. La bisettrice del Triangolo, un tiro di schioppo da Trieste a Promontore. Prendere le misure di questo pezzo di mondo a estate finita, con la malinconia e l'odore di uva nell'aria. E il lusso di un tuffo laggiù, dopo chilometri di sudore. In fondo ai faraglioni, Sud perfetto, verso il faro di Porer.
L'idea fermenta per mesi, talvolta anni. Poi la decisione si prende in due ore. Capita che il tempo ci sia, una finestra che non si ripresenterà più. Capita che il tempo sia buono e che, in aggiunta, il corpo dia segnali di insubordinazione. Perdita delle chiavi di casa, insonnia, voglia di bastonare un tizio solo per come cammina. Allora è tempo di andare.
Niente più alibi. Mezza giornata per fare il sacco e via. Il materiale buttato sul letto, sempre troppo, e lo zaino che non si chiude. Scarpe leggere, un chilo di frutta secca, due borracce. Un piccolo computer per scrivere la storia in diretta. Parto senza avere allertato nessuno. Sarò un perfetto sconosciuto. Un bagno di umiltà. Chissà cosa mi dirà la strada.
L'indomani alba pulita. Certezza di dimenticare qualcosa. Ore 7.20 via Carducci, bus numero 40 per Prebenico, il posto giusto per partire, sulla frontiera, alto sulla valle dell'Ospo. Da lì si infila meglio il crinale dei monti della Vena. Mi aspettano Sergio Ollivier e Marco Rodriguez per accompagnarmi fino a Gracisce, prima tappa. Li vedo e penso che sono matto. Ho 63 anni.
Strappo per San Servolo, traversata su Kastelec, ultimo caffé fatto in casa da Vlado e Marija. Qui l'autostrada per Capodistria è in tunnel, si va oltre agevolmente per una collinetta dietro il paese. Radure, rimboschimenti, una immensa cava. Marco mi ha dato un bastone ferrato di ciliegio. Mi fa prendere il passo transumante che ho imparato dai mandriani del Molise. Si fanno distanze enormi con quel ritmo lento.
Troppi pini, troppi chilometri senza orizzonte. Ma, presso i paesi, settembre regala frutta a volontà. Fichi, prugne, noci, more. Rigoni Stern fece mezza Europa a piedi nutrendosi così. Ma allora le campagne erano abitate: trovavi carrettieri, pastori, viandanti. Noi non troviamo anima viva. Se sei solo e ti rompi una gamba, ti ritrovano dopo un mese. Mentalmente, Trieste è a mille chilometri.
Lungo il ciglione arriviamo alla rupe vertiginosa, torva, di San Sergio, Crni Kal. Il castelletto in cima è stato addomesticato da una passerella. In basso, nella foresta, il paese col campanile storto. Sullo strapiombo, due rocciatori appesi al nulla. Il rombo lontano dell'autostrada che ci ha seguito fino a ora, finalmente si attenua.
Gran giornata. Vista immensa: alti a Nordest il Taiano e la Sbevnica; a Sudovest, oltre il vallone del Risano, i colli che portano a Covedo e, oltre, a Portole e Stridone. Il ciglione è tagliato dalla ferrovia per Capodistria e il binario si tuffa in un dislivello pazzesco. Un solo binario, un collo d'oca. Ma l'andirivieni è impressionante, tutta l'economia slovena passa per queste Termopili. Mi chiedo cosa accadrà quando verrà il doppio binario, se Trieste continuerà a fottersene del suo porto.
Direzione Podpec, paese sovrastato da strapiombi e da una torre di difesa, ultima vedetta sul mare lontano. Il ciglione qui è magnifico, simile a quello fra San Lorenzo e Sant'Elia sopra la Rosandra. Landa, pettinata dalla bora. Cespugli di profumato santoregio. Voglia di birra che comincia a crescere. Voglia matta di mare, anche. Ora non lo vedrò per chissà quanto tempo. Supplizio di Tantalo, si dice.
A Podpec mi butto su una panca sotto un tiglio, i piedi alti su un muretto. La seconda borraccia è già agli sgoccioli; camminando si beve il doppio e si mangia la metà. Nel silenzio sento mille rumori. Due donne che chiacchierano. Una radiolina. Un maiale che grufola. Mi sento già in Bosnia. Ma le falesie contorte somigliano anche alle Dolomiti Lucane.
Tagliamo su Hrastovlje, paralleli alle ferrovia. Sono le due del pomeriggio, e il paese è in fregola da vendemmia. Due vecchi ci invitano ad assaggiare il primo succo spremuto. Ma noi è la birra che cerchiamo, nell'osteria in fondo al paese. Cinque birre in tre, prosciutto e peperoni sottaceto. Ollivier è felice, un simpatico chiacchierone che andandosene, stasera, mi getterà in un silenzio ancor più insopportabile.
Dopo la birra, la salita per Gracisce – 250 metri di dislivello nel pietrame – ci pare un purgatorio, ma sul crinale un'alta torre di vedetta consente di riassumere tutta la tappa in un unico colpo d'occhio. Marco è incantato, farebbe carte false per continuare la strada domani. E io farò più fatica a star solo dopo tanta compagnia.
Locanda con alloggio sullo stradone, di fronte alla cappelletta di Santa Maria del Soccorso. Dormirò qui. Una donna mi offre un grappolo appena colto. Scende il silenzio. Alle cinque il traffico è già azzerato. Nubi rosa, luna color pergamena, brume azzurre, bosco di un verde profondo. Odore di campagna di una volta, mare che pare un miraggio.
Ho le labbra secche, mi riaffiora una poesia di Mevlana: «La secchezza delle tue labbra è un messaggio dell'acqua». Abbiamo attraversato terre carsiche, dove l'acqua è un dono di Dio forse più che altrove. Marco è certo che qui ci sia un legame fra il culto delle fonti e quello della Vergine santissima.
Dormirò di sonno esausto, profondo e regolare, non disturbato da piccoli risvegli. L'indomani frontiera verso Pinguente; una frontiera rognosa, perché la sbarra croata e quella slovena distano più di tre chilometri d'asfalto. Non ho nessuna voglia di percorrerli in ossequio ai burocrati. Ho in mente un'uscita clandestina, sopra una fascia di rocce a picco.
Speriamo bene. In camera mi accorgo che un “mandriol” verde smeraldo si è posato sul mio sacco rosso e non se ne vuole andare.

giovedì 22 dicembre 2011

Carla Coco, Venezia in cucina



La Castradina S'ciavona

Possiamo solo immaginare Riva degli Schiavoni brulicante di gente proveniente da tutto l'Adriatico, che scaricava merci dai trabacoli, le tipiche barche da trasporto. Provenivano dalla Schiavonia, luogo dai confini incerti che abbracciava la Dalmazia, la Bosnia, l'Albania. Erano battelli veloci di piccolo cabotaggio, che si possono paragonare ai corrieri moderni, i cosiddetti 'padroncini' che muovono gran parte delle merci in questa nostra epoca.
Favoriti dalle esenzioni daziali stabilite dalla Repubblica, gli schiavoni trasportano derrate alimentari in gran quantità tanto da provocare una lenta ma inesorabile mutazione del gusto. In molti piatti lagunari si sente profumo di Dalmazia, dai risi in cavroman, in cui si combinano riso e castrato tagliato a pezzetti, al castrà in umido con patate, passando per l'agnello all'orientale, arrostito dopo essere stato ben unto con burro e latte.
Tra tutti gli alimenti ne rimane uno che ancora oggi racchiude in sé il seme della storia passata e il simbolismo religioso dei veneziani: la castradina s'ciavona. Un piatto evocativo delle perdute terre d'oltremare, che in fin dei conti erano considerate 'altre Venezie' più che territori occupati. Discorso lungo che ci porterebbe lontano, a parlare di ciò che era la venezianità lungo le coste dell'Adriatico: un solo respiro sincrono con il Dogado.


Ma torniamo alla nostra castradina, che viene consumata il 21 novembre di ogni anno, da quando cioè la Repubblica istituì la festa della Madonna della Salute nel 1631. E quando si tratta di salute i veneziani non scherzano. Se ad ogni fine di pestilenza, pur stremati, s'indebitavano per creare i più bei templi votivi, figuriamoci se era un problema far arrivare dalla Dalmazia carne salata, affumicata ed essiccata di giovane montone castrato. In pratica, un concentrato delle buone tecniche di conservazione allora conosciute, in grado di superare indenne il periodo di quarantena, e questo anche in epoca di emergenza sanitaria.
Un cibo forèsto con l'evidente compito di scacciare 'il male' in favore della 'salute'; ma lasciamo la descrizione del piatto ad Elio Zorzi nelle sue Osterie veneziane, datato 1928: «Della castradina si parla in uno dei più antichi documenti della Repubblica: nel calmiere del doge Sebastiano Ziani nel 1173 non si nomina proprio la castradina, ma si parla di sicce carnis de romania et sciavinia. E infatti la castradina non è che la carne dei montoni tagliati per metà nel senso della lunghezza, salati prima, affumicati poi, lasciati seccare al sole e infine stagionati nei fondachi e nelle stive».

Come e quando un cibo così tipicamente balcanico sia entrato in una delle feste religiose più sentite dai veneziani è difficile stabilirlo con certezza. Comunque sia, la ricetta ci è stata tramandata, ovviamente con delle varianti, essendo nel frattempo venuti meno trabaccoli e mercanti dalmati.

Una buona castradina con le verze ha bisogno innanzitutto di tempo. Si lascia la carne a bagno per un giorno in acqua, si taglia a pezzetti e si mette sul fuoco con un po' d'olio d'oliva, che sostituisce lo strutto, si aggiungono le verze nere e si fa sobbollire, senza fretta, fino a quando la carne non diventa tenera.

Si tratta quindi di carne bollita, quasi una zuppa, una çiorba balcanica, dove la materia prima subisce ancora oggi il trattamento antico della conservazione con sale, ginepro, rosmarino, alloro, coriandolo, cipolle e carote. Le carni non provengono più dalla Dalmazia ma da Sauris, e bisogna dire che l'aria così favorevole ai prosciutti giova ai cosciotti del giovane montone. Non si può non essere d'accordo con Zorzi. Mentre le ultime tracce degli antichi legami tra Venezia e il suo Levante declinavano, rimaneva la castradina, ultimo residuo commestibile d'una tradizione imperiale.

brulicante: pieno di persone che si muovono contemporaneamente
piccolo cabotaggio: che compiono navigazione lungo la costa fermandosi in porto in porto
esenzioni daziali: che non pagavano le tasse
derrate: prodotti alimentari di origine agricola
in umido: stufato, cotto con un liquido con un coperchio e a fiamma bassa
Dogado: dominio del Doge o dela Repubblica
pestilenza: epidemia di peste (peste: grave malattia contagiosa)
s'indebitavano: si riempivano di debiti
tempio votivo: che rappresenta un voto religioso
montone castrato: il maschio della pecora castrato per farlo ingrassare
indenne: senza danni, senza problemi
quarantena: periodo di isolamento di quaranta giorni
fondachi: magazzini per metterele merci nei palazzi veneziani
strutto: grasso ricavato dal maiale
sobbollire: bollire
cosciotti: coscie, parti della zampa dell'animale

giovedì 15 dicembre 2011

Alla larga da Venezia



Origano e liquore d'oppio


Da Venezia il convoglio di navi per Candia partì il 20 marzo, come aveva previsto Stae. All'alba di quel giorno Aloìsius era pronto sul molo di San Marco. Aveva con sé un piccolo bagaglio, una sacca di camoscio che conservava dai tempi della sua gioventù in Baviera. Gli ultimi oggetti deposti in quella sacca prima di lasciare casa Grimani furono un grosso quaderno intonso e l'astuccio di scrittura. Perché si era ripromesso da allora in poi di annotare con cura gli avvenimenti della sua nuova vita.


Dal diario di Aloìsius Mòsele.

Candia, 5 aprile 1431.
Libero! Lasciata Venezia, dopo quattordici fortunati giorni di navigazione ieri sono sbarcato a Candia. E d'ora in avanti, quaderno mio, ti affiderò i resoconti dei fatti che mi capiteranno, tra i più ragguardevoli. Ma anche le mie suggestioni e i miei pensieri, pur senza voler rispettare a ogni costo la precisione marinara: così mi raccomandò stamane il patron Piero Quirino.

Nel segno dell'antica amicizia con mio padre, Quirino mi ha accolto con l'affetto e il calore che mi attendevo da un gentiluomo par suo. Mi ha subito ricordato che sulla nave già gli scrivani Cristofalo Fioravante e Nicolò Michiel saranno imbarcati, tal che io sarò libero di annotare resoconti secondo la mia vena, e dovrò sopperire innanzi tutto alle necessità di medicina e chirurgia. Ciò perché il mio patron non ha avuto il tempo di aspettare la conclusione del bando del Senato in Venezia per i medici di bordo destinati ai viaggi fuori di Gibilterra. Rammentando le mie attitudini in materia sanitaria, ha colto l'occasione di attribuirmi generosamente l'incarico con la stessa mercede che toccherebbe a un chirurgo titolato, oltre alla panatica e alle spese comuni di vestiario. Più di quanto ricevessi come precettore in casa del gentiluomo Grimani.

Ho già assolto il primo incarico ricevuto in questa mia nuova veste grazie al fornitissimo fondaco di messer Kastoria, illustre speziale di Candia, approvvigionando il baule sanitario della Gemma secondo il ricordo degli armadi del medico Bartolo Chiarugi, da me tante volte riordinati in Verona.

Anzitutto ho acquistato trecento once di elleboro negro in radice, che all'occorrenza preparato in liquore per bagnature risana da rogna, scabbia, sversamenti nascosti di sangue, croste infette, pidocchi e se bevuto in piccolissima quantità libera dai vermi.

Quindi ho provveduto a rifornirmi di sei ampolle di elisir composto da miele e ambra, zucchero rosato di borragine, scorze di cedro, genziana, semi del dauco di Candia, coralli rossi e bianchi, polpa di tamarindo, rabarbaro: elisir da prendersi in caso di doglie di testa, vomito, dolori di schiena e infezioni agli occhi, non più di una dramma al giorno.

Ho poi stivato in ventiquattro cassellette altre medicine utili:

Verbasco emolliente
Origano antispasmodico
Pimpinella e radici di liquirizia per impiastri astringenti
Caccole e liquore d'oppio per mitigare dolori
Ribes e borragine per placare la diarrea
Marrubio ed edera per risvegliare il fegato e contro catarri e indigestioni
Semi di cucurbita e arnica a lenir contusioni
Calendola per i geloni
Asparago a scioglier le urine
Senna e ricino purgativi
Foglie di melograno contro i vermi maggiori
Asfodelo per disturbi agli occhi e sordità
Vischio e artemisia a contrastar l'epilessia
Corteccia di salice nero che sciolta in vino rosa combatte pensieri ossessivi e onanismo.

Voglia il Signor Dio che non abbia dimenticato null'altro di utile. E similmente voglia che l'equipaggio debba ricorrere il meno possibile ai miei servigi medici nel lungo viaggio per Fiandra.

venerdì 7 ottobre 2011

Andrea Molesini, Non tutti i bastardi sono di Vienna




Il Terzo Fidanzato della nonna aveva i piedi troppo grandi per essere considerato intelligente. Scemo non era, perché sapeva oziare con grazia e costanza, ma, date le dimensioni dei piedi, l’attenzione riservata alla sua testa non poteva essere molta. Il nonno Guglielmo, che vantava diverse amanti, diceva che quello – il rivale non lo chiamava mai per nome – parlava solo per dare aria alla bocca: «Agli stupidi piace mettere la stupidità in vetrina, e non c’è niente di meglio della parola per questo».
Al nonno piaceva incasellare in sentenze le cose del mondo. Sentenziava masticando il sigaro e fingendo un’aria da marinaio di molti mari, proprio lui che odiava l’acqua, non esclusa quella del lavabo. Liberale di ferro, beffeggiava le blande simpatie socialiste della nonna:
«Chiudi tre dei tuoi in una stanza e dopo mezz’ora avranno quattro opinioni differenti». Passava molte ore del giorno a scrivere un romanzo che non finiva mai, ma secondo la nonna non aveva mai scritto un rigo: «È una posa per tenere a distanza mocciosi e villani ». Nessuno, però, osava forzare il Pensatoio, lo stanzino dove il nonno passava quasi tutto il giorno, tranne quando pioveva, perché allora usciva a passeggiare senza l’ombrello, solo, con il cappello di feltro dalla tesa slabbrata. Era buddista, ma di Budda non sapeva un granché. Però capiva di briscola e di storia e scriveva lettere al Gazzettino, mai pubblicate perché coprivano d’insulti gli amministratori della città lagunare: tutti «sozzi figli di preti sciocchi», a sentir lui.
La nonna, invece, spumeggiava su tutto. Se c’era da spendere mezza lira diceva: «Meglio di no», e quel meglio di no capitava due dozzine di volte al giorno. A dispetto dei suoi settant’anni, era alta e diritta, forte e bella, una pantera canuta. Il suo bagno era un poema: ornato di clisteri beige, ocra, neri e tinta pelle. Ce n’erano due o tre su ogni braccio dell’appendiabiti di smalto, mentre pigiami e mutande erano relegati in un comò verde, dove una ciotola di vetro di Murano ospitava una decina di collane di perle matte e di murrine. I clisteri, nei giorni della loro gloria, raggiunsero il numero di sedici, con le quattro perette da un 1/4, da 1/2, da 3/4 e da litro. Le sacche erano tondeggianti, a pera, a zucca, a cantalupo, tutte di tela cerata, e i tubi di gomma opaca sembravano, riflessi nel pallore del mosaico, tentacoli di creature marine dai becchi ricurvi.
I tre domestici – Teresa, la figlia Loretta, e Renato – facevano per sei. Loretta, ventenne, era belloccia, e aveva gli occhi storti, che guardavano in basso, ma quando te li puntava addosso sapevi che ti odiavano, e che altro non sapevano fare. Renato aveva una gamba un po’ più corta dell’altra, e zoppicava. Era il mio preferito e sapeva fare di tutto, pescare nel fiume con fiocina e coltello, ma anche spiumare il pollo destinato alla casseruola di Teresa. E lei, Teresa, era un portento. Brutta di una bruttezza rara, aveva cinquant’anni ben portati ed era più forte di un mulo, e non meno cocciuta. Zia Maria – Donna Maria per gli estranei – era invece di bell’aspetto, prigioniera di una fierezza che affascinava e allontanava gli uomini: veniva corteggiata con discrezione anche dagli spiriti più appassionati e audaci, una non piccola condanna. E poi c’era Giulia. Giulia era matta, bella, rossa. Uno schiaffo di lentiggini. Era fuggita da Venezia per uno scandalo di cui nessuno osava parlare: in paese c’era più di qualcuno che, nel vederla passare, sputava per terra, e non mancavano le beghine che si facevano il segno della croce per scacciare Pape Satàn. Aveva sei anni più di me e al suo apparire arrossivo, anche da lontano. Non stava in manicomio perché era una Candiani, e i signori – in quegli anni, almeno – non finivano in gattabuia, e non erano nemmeno matti, semmai eccentrici: un signore era cleptomane, non ladro, e una signora ninfomane, mai puttana. Quella notte del 9 novembre, quando i tedeschi s’impossessarono della mia stanza, andai a dormire nella soffitta, uno stanzone di nove metri per cinque, con quattro abbaini e le capriate di larice che mi costringevano a tener bassa la testa. Là condivisi con il nonno uno stramazzo buttato sulle assi del solaio, che erano tutte una scheggia, mentre alla nonna fu permesso di restare in camera sua.
La sconfitta dell’esercito italiano era una vergogna che ogni soldato invasore ci gettava in faccia: io avevo diciassette anni, quasi diciotto, e vedere il nemico spadroneggiare in casa mia era insopportabile. Quelli del ’99 erano già in trincea: pochi mesi e sarebbe toccato a me. «Manca poco e sono a Roma a liberare il Papa, così dicono loro, eh… tra felloni se la intendono, dico io».
Il nonno considerava i preti un gradino – piuttosto piccolo– sopra gli agenti delle tasse: «Quei figuri in gonnella hanno l’immaginazione di un tacchino, ma l’astuzia della volpe e del serpente, sono loro la grande beffa del creato, altro che le piaghe di Giobbe… vedi, Budda non ha preti» mi guardò dritto negli occhi, cosa che faceva di rado da quando avevo perso i genitori, «o se li ha non sono austriacanti». Si sputò nel palmo della mano, che ripulì nel vasto fazzoletto. A me il nonno piaceva. Dalla berretta da notte si separava solo, e a malincuore, verso le dieci del mattino.
Quella notte, però, se l’era svignata senza la sua berretta. Un fante e un caporale l’avevano legato a una sedia e l’uno premendogli il calcio del fucile sullo sterno, l’altro accarezzandogli la gola con la lama della baionetta, gli avevano fatto dire il nascondiglio delle gioie. Fortuna che la nonna, a sua insaputa, era riuscita a infilare le cose più preziose – e una manciata di sterline d’oro – nella sacca di uno dei suoi clisteri, oggetti troppo umili, e troppo prossimi alla merda per solleticare l’appetito dei predoni. «Sono preoccupato per Maria… certo, se c’è qualcuno che può spaventare un tedesco è lei» disse il nonno, accasciandosi sullo stramazzo. I cartocci di pannocchia scricchiolarono sotto il suo peso. Fissava le travi con gli occhi umidi, ma non voleva farmi sentire la sua paura: le nostre vite, le nostre cose, tutto era in balìa del nemico. «Guerra e bottino sono i soli sposi fedeli» disse. Mi sistemai accanto a lui. Il nonno voleva bene alla zia, «è una donna di piglio e di grazia» diceva. Era la figlia di suo fratello, scomparso nel naufragio dell’Empress of Ireland, nel maggio del ’14, insieme alla moglie e ai miei genitori, in quel viaggio che tutti, in famiglia, chiamavamo la «Grande Sciagura». Da allora le erano stati affidati gli affari della villa, forse perché alla mia educazione si dedicava, sia pure con svogliata costanza, la nonna. «L’hai mai guardata bene negli occhi, tua zia? Sono verdi, fermi come sassi. Lo sai cosa dicono i marinai? Dicono che quando l’acqua si fa verde la tempesta t’inghiotte». Il nonno non era mai stato in mare, ma i suoi discorsi erano infarciti di detti e imprecazioni da capitano di lungo corso: «alla via così», «duri i banchi», «se t’acchiappo t’impicco all’albero dimaestra», frase, quest’ultima, che aveva bandito dal suo dire da quando, subito dopo la Grande Sciagura, aveva preteso che gli dessi del tu.
Erano tutti diventati molto gentili con me dopo il naufragio dell’Empress, e io ne avevo approfittato per godermela; il bello è che non ne avevo sofferto, non come ci si aspettava, almeno. I genitori, per me, erano degli estranei, o quasi. Mi avevano mandato in collegio per togliersi dai piedi un problema, o perché – volendo essere benevoli – pensavano che l’educazione dei giovani fosse un affare a cui padre e madre sono inadatti. Il mio collegio era dei domenicani e i padri consideravanola salute del corpo importante almeno quanto quella dell’anima, su cui erano – e la cosa stupiva non poco – propensi ad ammettere una certa ignoranza. Nel giorno fatale il preside – uno studioso di San Domenico di Guzmán, che a noi ragazzi sembrava centenario per via della barba bianchissima e della curvatura della schiena – mi mandò a chiamare. Il suo ufficio, foderato di grossi libri di cuoio, misurava tre passi per quattro: lì il puzzo di muffa, di carta, d’inchiostro, d’ascella e di grappa si contendevano il campo. Sollevò la fronte dal manoscritto che stava consultando, e mi squadrò con tutto l’azzurro dei suoi occhi, ingigantito dalle lenti: «Sedete, giovanotto». Non fece preamboli, e non annacquò la notizia con dicerie sulla vita eterna. Parlava con voce ferma, senza una pausa. Non cercai di fingermi addolorato, dissi: «Non sentirò la loro mancanza». Strinse le palpebre e mi fissò con la faccia dura.«Certe cose si capiscono dopo», disse prima di ricacciare il naso nel manoscritto. Forse non mi sentì nemmeno uscire, ma quelle sue parole mi rimasero dentro: aveva ragione lui, il colpo venne dopo, la ferita si aprì un poco alla volta e un poco alla volta si rimarginò.

oziare: passare il tempo senza far nulla
vantava: diceva di avere
dar aria alla bocca: parlare senza aver nulla da dire
sentenze: frasi fatte, con un senso definitivo
beffeggiava: prendeva in giro
blande: molto moderate
posa: atteggiamento
mocciosi: bambini
villani: maleducati
tesa: la parte del cappello che protegge dal sole o dalla pioggia
slabbrata: consumata
briscola: gioco a carte
sozzi: sporchi
canuta: dai capelli bianchi
clistere: l'attrezzo per liberare l'ultimo tratto dell'intestino da feci, in genera una piccola pompa
a cantalupo: a forma di melone
fiocina: attrezzo a forma di tridente
casseruola: tipo di pentola
cocciuta: testarda
gattabuia: testarda
stramazzo: materasso
felloni: traditori
austriacanti: sostenitori dell'occupazione austriaca
fante: soldato semplice
cartocci di pannocchia: un tempo i materassi erano imbottiti di foglie di mais
essere in balìa: dipendere

martedì 24 maggio 2011

Scipio Slataper, Il mio Carso


Vorrei dirvi: Sono nato in carso, in una casupola col tetto di paglia annerita dalle piove e dal fumo. C’era un cane spelacchiato e rauco, due oche infanghite sotto il ventre, una zappa, una vanga, e dal mucchio di concio quasi senza strame scolavano,dopo la piova, canaletti di succo brunastro.

Vorrei dirvi: Sono nato in Croazia, nella grande foresta di roveri. D’inverno tutto era bianco di neve, la porta non si poteva aprire che a pertugio, e la notte sentivo urlare i lupi. Mamma m’infagottava con cenci le mani gonfie e rosse, e io mi buttavo sul focolaio frignando per il freddo.

Vorrei dirvi: Sono nato nella pianura morava e correvo come una lepre per i lunghi solchi, levando le cornacchie crocidanti. Mi buttavo a pancia a terra, sradicavo una barbabietola e la rosicavo terrosa. Poi son venuto qui, ho tentato di addomesticarmi, ho imparato l’italiano, ho scelto gli amici fra i giovani più colti; - ma presto devo tornare in patria perché qui sto molto male.

Vorrei ingannarvi, ma non mi credereste. Voi siete scaltri e sagaci. Voi capireste subito che sono un povero italiano che cerca d’imbarbarire le sue solitarie preoccupazioni. È meglio ch’io confessi d’esservi fratello, anche se talvolta io vi guardi trasognato e lontano e mi senta timido davanti alla vostra coltura e ai vostri ragionamenti. Io ho, forse, paura di voi. Le vostre obiezioni mi chiudono a poco a poco in gabbia, mentre v’ascolto disinteressato e contento, e non m’accorgo che voi state gustando la vostra intelligente bravura. E allora divento rosso e zitto, nell’angolo del tavolino; e penso alla consolazione dei grandi alberi aperti al vento. Penso avidamente al sole sui colli, e alla prosperosa libertà; ai veri amici miei che m’amano e mi riconoscono in una stretta di mano, in una risata calma e piena. Essi sono sani e buoni.

Penso alle mie lontane origini sconosciute, ai miei avi aranti l’interminabile campo con lo spaccaterra tirato da quattro cavalloni pezzati, o curvi nel grembialone di cuoio davanti alle caldaie del vetro fuso, al mio avolo intraprendente che cala a Trieste all’epoca del portofranco; alla grande casa verdognola dove sono nato, dove vive, indurita dal dolore, la nostra nonna.

Era bello vederla seduta nella larga terrazza spaziante su enormi spalti le montagne e il mare, lei secca e resistente accanto all’altra mia nonna, la veciota venesiana, rubiconda e spensierata, che aveva quasi ottant’anni e le si vedeva ancora il forte palpito azzurrino del polso sollevarsi e cadere nella pelle morbida come una foglia. Questa mi parlava dell’assedio di Venezia, del sacco di patate in mezzo la cantina, della bomba che fracassò un pezzo di casa. E aveva un fazzolettino bianco sui pochi capelli fini, ed era allegra. Quando veniva a mangiare da noi, babbo le diceva sempre: - Beati i oci che i la vedi.

Ma allora essa non m’interessava. Io filavo in campagna a giocare con gli alberi. Il nostro giardino era pieno d’alberi. C’era un ippocastano rosso con due rami a forca che per salire bisognava metterci dentro il piede, e poi non potendolo più levare ci lasciavo la scarpa. Dall’ultime vette vedevo i coppi rossi della nostra casa, pieni di sole e di passeri. C’era una specie di abete, vecchissimo, su cui s’arrampicava una glicinia grossa come un serpente boa, rugosa, scannellata, torta, che serviva magnificamente per le salite precipitose quando si giocava a ‘sconderse. Io mi nascondevo spesso su quel vecchio cipresso ricco di cantucci folti e di cespugli, e in primavera, mentre spiavo di lassù il passo cauto dello stanatore, mi divertivo a ciucciare la ciocca di glicine che mi batteva fresca sugli occhi come un grappolo d’uva. Il fiore del glicine ha un sapore dolciastro-amarognolo, strano, di foglie di pesco e un poco come d’etere.

C’erano anche molti alberi fruttiferi, àmoli, ranglò, ficaie, specialmente. Appena i fiori perdevano i petali e i picciòli ingrossavano, io ero lassù a gustarli, non ancora acerbi. Acerbi son buoni! Il guscio del nocciolo è ancora tenero, come latte rappreso, e dentro c’è un po’ d’acqua limpidissima e ciucciosa. Poi, dopo qualche giorno, quando la mamma è uscita di nuovo per andare dalla zia, essa diventa una gomma gelatinosa dolce a sorbirsi con la punta della lingua. Ma la carne com’è buona, così aspra. Prima il dente ha paura di toccarla, e la strizza guardingo, mentre la lingua riccamente la inumidisce e assapora la linfa delle piccole punture. Poi la si addenta. Le gengive bruciano, i denti si stringono l’uno addosso dell’altro, si fanno scabri e ruvidi come pietre, e tutta la bocca diventa una ricca acqua.