Marco Paolini, Tappeti
Anch’io all’inizio di questa storia ho fatto tappeti di
parole. Non c’è mai stata una storia, così dovevo intrecciare
trame, facendo un groppo ogni tanto per non perdere
il filo. Non puzzavano di cammello ma di inchiostro, e
dovevano via via perdere ogni traccia di scrittura per diventare
parola.
La prima nota sul mio quaderno di lavoro è del marzo
1996. Dice solo questo.
Portolano si diceva anche carta de marear. La parola è potente,
suona, evoca, mi smuove.
Stavo accumulando letture disordinate (ed è un errore
perché ci si perde) poi altre parole: libro maestro, portolano
dei sabbioni, carta prima del Milion… appunti foresti.
Il Milione che conosciamo non è il libro scritto dal suo
autore ma una trascrizione impossibile, un tentativo di
trattenere sulla carta l’immenso paesaggio che Marco Polo
disegna parlando. La tecnica di Rustichello da Pisa modifica
il racconto, ne fa l’«editing», lo ingentilisce, gli dà
una forma necessaria, ma io immagino un racconto orale
debordante che la carta non trattiene.
Così comincio a immaginare un Marco Polo narratore di
Venezia trascinandomi dietro le città invisibili di Calvino,
ma anche fonti più lontane e accumulate nei primi mesi
disorganizzati e incomincio a pernottare a Venezia, ospite
di amici e conoscenti, a misurare le differenze tra Santa
Marta, il Sestriere di Cannaregio, Castello e la Giudecca;
tra ruga, riva, calle, ramo e fondamenta.
Giro con un registratore in tasca e prendo appunti sul
quaderno di lavoro, passo mattine nella terra di nessuno
del Tronchetto dove gli abusivi agganciano i turisti e li impacchettano.
Mi faccio raccontare la Venezia dei comitati antisfratto,
ma anche la giornata di un trasportatore di merci su un
mototopo, il furgone dei canali.
Prendo lezioni di voga molto, molto approssimative e
uso i vaporetti non per andare da qualche parte, ma per
ascoltare chi ci viaggia.
Non so ancora come montare questi materiali, non ne
ho proprio idea, cerco anzi di non pensarci affatto.
Mi riempio di un paesaggio che prima o poi dovrò raccontare
per non scoppiare, disegnare a parole come Marco
Polo con Rustichello da Pisa. Più o meno.
Seguendo il quaderno trovo degli appunti di giugno ’96.
In Europa il cielo ha sempre una cornice; per sapere quanto è
grande il continente dove ti trovi devi guardare il cielo e non la
terra.
L’aria dei continenti ha nuvole più grandi e ce ne stanno di
più dentro il tuo sguardo. Se stai su un’isola piana le nuvole vanno
a cerchi o, se l’isola è alta, riposano sulla cima come uccelli stanchi
di mare.
L’Europa ha cieli più piccoli tranne in rare giornate di aprile.
Per capire dove inizia l’Oriente devi camminare per settimane
e mesi verso l’alba finché il cielo non diventa prateria.
C’è in tutto questo lavoro teatrale un andare verso un
altrove senza allontanarsi troppo da casa. Volevo tenere insieme tempi lontani e luoghi lontani. Mi ci è voluto del tempo
per addomesticare i voli pindarici e costringermi a volare
basso, ma già dalle prime volte che ho raccontato in pubblico,
ho capito che non erano importanti i riferimenti, gli
autori e le fonti. Lo erano per me, per costringermi a inventare
su basi documentate, ma era altrettanto importante riportare
con precisione scene, quadri, mestieri, figure umane
di una città come antidoto a una Venezia-cartolina anche
se con un pedigree illustre.
Nel quaderno ci sono dei canovacci con indicazione del
luogo per il quale sono stati composti, ogni canovaccio non
occupa più di una facciata o due perché dovevo tenerlo
d’occhio per non perdermi.
Le cose sono indicate per argomenti da trattare. Si potrebbe
dire che è una scaletta e non un canovaccio, ma c’è
una parola che ho usato solo per questo spettacolo che dice
come ho lavorato a costruirlo: tappeto.
Il canovaccio è diviso non in scene, ma in tre-quattro
tappeti, come nel canovaccio di Mezzocorona (Tn).
tappeto 1
La città-nave / Piantare pali in barena.
6 ore cala, 6 ore cresce.
tappeto 2
Passaggio a nordovest.
Da Piazzale Roma/Tronchetto/Ferrovia.
La città faticosa dei turisti a terra.
Filippo Tommaso Marinetti.
Tappeto 3
Il molo.
La porta a sudest.
Vaporetti e città in acqua.
Moto ondoso.
tappeto 4
I vecchi, gli sfratti.
Quello che resta.
Mototopo.
I tappeti vanno intrecciati oralmente cercando di dare
ritmo, cadenza fino a costruire un arco narrativo solido. Nel
Tappeto 1, ad esempio, si inseriscono gran parte delle notazioni
storiche sulla costruzione di Venezia, note di architettura
e urbanistica. Nel Tappeto 2 sviluppo il punto di vista
della terraferma e i rischiosi, a volte comici, tentativi di
normalizzare Venezia per renderla «comoda».
La differenza con una scrittura di racconto è semplice
da capire, non c’è una sequenza temporale, non ci sono
concatenazioni drammaturgiche di causa ed effetto. È diverso
da un monologo, questo non è un flusso di pensieri
che si comunicano, gli argomenti necessitano di spiegazioni
e le parole avrebbero bisogno di esser tradotte perché
a volte suonano incomprensibili, ma non perché in dialetto,
piuttosto perché riferite a cose di cui la terraferma non
ha esperienza.
Anche chi vive a Treviso, dove sono cresciuto, a venticinque
chilometri da Venezia, non conosce il significato
di molte di quelle parole.
Ma il teatro non deve essere troppo pedante, gli argomenti
non vanno trattati per essere spiegati, a questo basta una
conferenza. Serve quindi un modo di evocare, mostrare, concatenare,
di fare strati, costruire una mappa per orientarsi.
Ogni serata con il pubblico diventa così occasione di
intrecciare i fili sempre più lunghi, provando a rifare il disegno
simile, ma mai uguale alla volta prima.
Il disegno più complesso è interessante, ma serve un
equilibrio tra le parti.
Il primo tappeto si sviluppa più degli altri nell’estate
del ’96. Nel quaderno di lavoro trovo la trascrizione sbobinata
in cui a un certo punto il soggetto è diventato Venezia
stessa, una specie di coscienza che ricorda le ferite
e la grandezza. Un’esagerazione, certo, sul filo della retorica
e me ne accorgo, ma è interessante quel testo ridondante
e lungo per capire come le parole trascinano.
tappeto 1
Maremma = Barena.
La voga in Laguna: i fiumi.
6 ore cala, 6 ore cresce.
Pianta il remo: prima casa, legni e case leggere (Zacinto).
Fuoco Pfff!
Altre case più forti in pietra → fondazione muri.
Case-fondaco → come galere → ponti d’abbordaggio.
Rete di reti, scorrono le attività → far masserie.
Traslochi interni di botteghe che si mette vicine per somiglianza.
Costruzioni di scuole – arsenali – botteghe – fabbriche.
Leggi, leggi → una repubblica.
Tintori e conciai alla Giudecca, via le spusse.
I mercati all’isola rialtina con i magazzini e le dogane.
I conventi sparsi per le isole.
I governi a San Marco.
L’arzanà della Repubblica giù, dov’era solo palme e acqua.
E quelli del vetro, che fa fuoco pericoloso, tutti su un’isola a parte,
e distante.
Un’altra isola sarà solo di armeni.
(Gli Ebrei come stranieri bisognerà mandarli a stare tutti insieme
in Geto novo, che è come dire un castello).
Altre isole per il Lazzaretto.
I quartieri etnici, i fondaci, conventi foresti ci sono in tutte le città
mediterranee, a Genova, a Pisa, a Cagliari come a Costantinopoli,
Sarajevo o Alessandria.
Il Geto de rame, una fonderia, dà il nome universale al quartiere
per gli Ebrei.
Era così piccolo il ghetto vecchio che le case veniva divise per farci
stare tutti gli Ebrei. Succedeva di trovare una casa dentro una
casa, dentro una casa.
La città cresceva ma non c’era spazio per espanderla e così cresceva
verso l’alto → fa la sua comparsa un nuovo concetto edilizio:
la patronia dell’aere.
L’università dei levantini viandanti vende l’aere che è sopra le camere
sue al signor Josef Sachi, loro dirimpettaio, per 225 ducati,
così nessuno potrà costruire sull’aria del signor Sachi che in questo
modo avrà sempre una bella vista e tanta luce.
[…]
Rialto.
Tutte le merci da fora deve passar dalla dogana Maris, all’imbarco
del Canalasso, davanti al molo.
Sulle rive senta la magistratura, controlla i carichi, mette imposte.
Il sale è monopolio.
Il dazio sul vino si riscuote sulla Riva del vin a Rialto.
Il dazio del carbon e legname alla Tavola dei lombardi.
Vino, olio, pepe, panni, lana, sete alla contrà di San Giovanni.
Ferro, piombo e stagno a San Matteo.
In fondo all’isola rialtina il fondaco della farina.
Da qui le merci sbarca in insula infrapontes e va vendute nei mercà
particolari.
Alcuni scarica direttamente nell’androne e nelle volte a pianoterra
delle case dei mercanti, altri vende dalla barca a quei che passa,
i forestieri può vendere solo dentro i suoi quartieri o fondaci.
Il cuore di Rialto si raggiunge dal Ponte mobile che la mattina presto
viene attraversato da migliaia di persone: nobili, forestieri, poveracci…
[…]
Rialto è anche la city dei traffici marini dove si investono capitali, ma
la city spussa.
Spussa de peoci, bisati, baicoli, seppie, baccalà, aringhe in sal, canocie,
moleche, gransi.
Spussa de castradina, di porco fresco, sanguinacci, salsicce, sorpresse,
luganeghe, galline, oche, anatre, pollastri sbollentati con le piume, che
pelarli a caldo…
È difficile progettar commerci intorno al mondo in questo casino
d’ambulanti, mastelli di olive, sacchi di fagioli, piccioni che vola
alti nei canestri già infilzati negli spiedi, agnelli appena sgozzati e
appesi, frittoini, bacari, polentine fritte, ovi sodi, tramezzini che
ti impediscono di pensar con la testa (voci ambulanti).
C’è un cliente armeno, due piazzisti turchi, c’è un gruppo di tedeschi
che potrebbero diventar buoni clienti, c’è un vescovo e
qualche principe che cerca navi a noleggio per una crociera bellica
verso il Santo Sepolcro, c’è da trattare un po’ di ori, quadri e
schiavi bizantini che arriva dritti dritti dal sacco di Costantinopoli.
Non c’è traffico che non si possa fare, basta che la Repubblica abbia
la sua parte, il suo onesto profitto da una parte e possa dir la
sua sul prezzo.
Saoneri, scoacamini, savateri, scoellini, stramazzeri, strazzaroli ebrei,
spezieri, naranzieri, erbaroli, frutaroli, turchi, becheri, pelestrini, giudecchini,
armeni, chioggiotti, sanpierotti, realtini, napuli, campagne,
foresti.
[…]
Di tutto questo solo una sintesi è rimasta nei racconti
più recenti e forse è un peccato, ma un racconto così non
può durare più di due ore. Volevo tenere insieme più punti
di vista e dare peso al presente come al passato.
Di quanto è accaduto al Milione dalla fine dell’estate
del 1996 fino alla diretta su Rai Due dall’Arsenale di Venezia
nel settembre 1998, si trovano spiegazioni e tracce
sia nel testo di Francesco Niccolini contenuto in questo
quaderno sia nel documentario Questo radichio non si toca
pubblicato da Stile libero.
Volevo solo dire due parole ancora sul video.
Nella costruzione del film abbiamo usato un po’ lo stesso
criterio, accumulando immagini e riprendendo più volte
il racconto in luoghi diversi; a volte con il pubblico e a
volte senza. Non è facile raccontare a una telecamera, è
meno stimolante che farlo davanti a delle facce attente,
ma ho provato a farlo usando la memoria di quel che in
centinaia di volte, in tanti posti, davanti a tante facce diverse,
ho fatto senza mai ripetere la parte a memoria.
La forma del racconto nel film è una di quelle possibili,
è un tappeto in cui immagini, musica e parole disegnano
una mappa-labirinto in cui da ogni punto si può andare
in direzioni diverse.
Il Milione, quaderno veneziano è una mappa come quelle
antiche dove accanto alle linee delle coste dei fiumi erano
scritte parole utili ai viaggiatori, dove erano disegnate
cose come animali, case, navi e figure umane.
A che servivano le figure umane sulle mappe? A rassicurare
il viaggiatore, a dirgli: non sei tu il primo a venire
fin qua, stai tranquillo, non vedi, c’è anche lui, è ancora
vivo, puoi venire anche tu. Ma noi oggi abbiamo una visione
satellitare del mondo, impariamo da Google com’è
fatta una strada in Arizona senza muoverci da casa.
Ci orientiamo con il telefono e le mappe sembrano romantiche
e inutili.
A me piacciono le mappe, ho voluto fare uno spettacolo-
mappa dedicato alla capacità di certi uomini di costruire,
certo, ma anche di conservare, di rispettare e dare valore
a ciò che non ha prezzo. Non ho imparato a vogare
come loro e porto malissimo la barca che va storta e gira
in tondo, ma a un certo punto ho detto: «Mi fermo», non
ho finito, ma non può esserci finale.
E anche voi esigenti, se guardando la Laguna sulla vostra
mappa o sul Gps di ultima generazione vedete uno che
va avanti girando, quello per adesso sono io, e io qua son
rivà e qua me fermo. Anche perché non ho mai pensato nella
vita che per procedere bisogna andare in linea retta.
È la frase finale del testo teatrale e anche del film. C’è
nel video e nel libro, per il resto fra testo pubblicato e film
ci sono corrispondenze sparse e discrepanze varie. Il copione
contiene molte scene tagliate o poco rappresentate, c’è
anche roba di cui mi ero dimenticato, ma non c’è tutto. Qualcosa
sono anche riuscito a buttarlo, meno male.
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