Paolo Rumiz, È Oriente, Feltinelli, 2005, pp.198
Trieste-Vienna in bici
Pioviggina sul colle del Sonnenberg, ci alziamo sul sellino per l’ultima salita, finché in cima l’orizzonte si slarga e a nord – oltre i fiumi, i villaggi e le ultime pendici del Wienerwald – compare solitaria, evanescente come una fatamorgana, la guglia di Santo Stefano. È il Danubio, la meta, la gioia, il tuffo al cuore, le domande che frullano in testa. Vienna l’abbiamo già vista: da dove viene questa emozione nuova? Siamo già stati in mezzo mondo: e allora perché ci sembra di non aver mai viaggiato prima?
Non può dipendere che da questa macchina silenziosa che da sei giorni mio figlio e io abbiamo sotto il sedere. È la prima volta che la usiamo per viaggiare. È stata un bracco implacabile: ha fiutato il terreno in ogni anfratto e ora ce lo riconsegna nitido, ce lo srotola come un film. Trieste, Lubiana, la Drava, il Burgenland, il passaggio in Ungheria. Smette di piovigginare, siamo euforici, planiamo a tutta birra sul Danubio. Achau, Leopoldsdorf, Laxenburgerstrasse; la ragnatela della città imperiale ci cattura. Ma il risucchio è iniziato seicento chilometri prima, alla partenza, davanti alla porta di casa.
In questo viaggio le due bici sono state per noi tante cose. Tandem generazionale, strumento di conoscenza, riconquista della lentezza, passaporto per una clandestinità nuova, perfino macchina sovversiva. Hanno ribaltato la percezione della distanza, della durata e dell’andatura, la capacità di guardare e gustare, la dimensione acustica, olfattiva e persino onirica del viaggio. Sono state macchina da presa, rosario di orazioni, miscelatore di immagini e memorie, fabbrica di pensieri e di sogni straordinari.
A ben guardare, le due ruote leggere sono state anche strumento di penitenza, riscoperta della fatica e del silenzio. Si sono rivelate infine un attrezzo rivoluzionario, perché annullano le gerarchie, semplificano i bisogni, rivendicano un accesso più umano al territorio. Giunti in Austria – un luogo dove chi va in bici è un benemerito, non un miserabile intralcio all’industria dell’auto – abbiamo pensato spesso all’Italia, a questo paese d’Europa capace di esprimere Coppi e Bartali, nonché folle di cicloamatori tra i quali persino il capo del governo, ma che resta nevrotico e impercorribile, estraneo alle sue stesse strade millenarie.
I tedeschi la chiamano Reisefieber, febbre da viaggio. La riconosco subito: arriva a notte fonda, con vampate di calore, ansia e acciacchi vari. Fa caldo, mi rigiro nel letto e penso che sono matto. Parto senza allenamento, non so nemmeno cosa sia un rapporto 17 x 42. Perché lo faccio? Papà, aveva detto un giorno Michele, facciamo qualcosa insieme. E papà aveva detto sì, perché a cinquant’anni tutti vogliono fare qualcosa di speciale: riprendersi il proprio tempo e il proprio spazio, magari farsi un tagliandino di efficienza. Oggi ho la bici, mi tocca pedalare; ma so che già domani mattina non ce la farò ad alzarmi dal letto. Ho studiato le carte al centimetro, eppure di notte quei seicento chilometri paiono una muraglia invalicabile e infinita. L’aria è ferma. Mi alzo a controllare le sacche. Spazzolino, borraccia, quadernino, cerotti, carte geografiche, magliette, documenti, soldi. Mio figlio dorme beato. È sicuro che ce la farò: dunque è matto anche lui.
C’era la luna, la notte della vigilia. Una notte inquieta di cani e pipistrelli. Ho attraversato la città in scooter, l’aria era immobile e umida, lasciava sospesa una rugiada argentata. Succedeva una cosa rarissima: i profumi del mare e quelli della montagna non entravano in conflitto, ma si armonizzavano senza sovrapporsi. Così ho attraversato profumo di fieno e mare aperto, di cipressi e bagnasciuga, di pini marittimi e secca brughiera, il respiro delle acacie e l’odore della pescheria chiusa, e poi il droghiere, il macellaio, il panettiere. Era come se bucassi quel pulviscolo scavandovi un tunnel che aveva la forma del mio corpo.
Accanto al comodino tengo sempre pile di atlanti, carte, guide, romanzi di viaggio, diari di bordo, relazioni con fotografie di paesi lontani, storie di antichi pellegrinaggi. In cima, il libro dei libri, Moby Dick di Herman Melville. Talvolta sono così tanti che formano un muretto; al mattino devo scavalcarlo per alzarmi. Ai piedi del letto una piccola valigia, con l’indispensabile per le partenze improvvise, frequenti nel mio mestiere. Ecco, ogni mio viaggio comincia già lì. Prima con i sogni più trasgressivi, spesso sul far dell’alba. Poi con quel metro e mezzo di percorso impervio ingombro di libri accatastati. Passate quelle Forche Caudine, tutto diventa facile. Esci di casa ed è fatta.
Filiamo all’alba come contrabbandieri. Odore di bosco: è pulita a quell’ora l’aria di città. Ultimo dubbio, prendere o non prendere il telefonino. Poi tagliamo corto: siamo uomini o commercialisti? Così lasciamo il grillo infernale, molliamo gli ormeggi, e già al primo colpo di pedali si insinua in noi una leggerezza nuova. Siamo liberi, irreperibili. Chi ha detto che partire è un po’ morire? Qui la partenza è un’evasione, la strada una via di fuga. E noi siamo degli imboscati, dei banditi allegri. L’ansia evapora, la fretta pure. I motorizzati diventano marziani, l’auto un dinosauro, sgommare una demenza. Ce la faremo, bastano pochi metri per capirlo. La condizione non c’è? Chi se ne frega; verrà.
- slarga: allarga
- pendici: i lati di un monte o di una collina
- evanescente: che tende a svanire, a sfumare
- fatamorgana: tipo di miraggio di illusione ottica
- bracco: una specie di cane da caccia
- fiutato: participio di fiutare annusare
- anfratto: luogo stretto e difficile da percorrere
- risucchio: forza che attira veso il fondo
- olfattiva: dell'olfatto, che ci fa distunguere gli odori
- penitenza: sacrificio
- intralcio: ostacolo
- Coppi e Bartali: due campioni del ciclismo italiano degli anni '50
- acciacchi: disturbi fisici abituali
- tagliandino: controllo periodo dell'efficienza
- pulviscolo: polvere sottile sospesa nel'atmosfera
- Forche Caudine: la fase significa: provae una grande umiliazione
Paolo Rumiz, È Oriente, Feltinelli, 2005, pp.198
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